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Prodotti stampati in 3D in sanità: sono sempre dispositivi medici?

Il settore medicale è quello che viene impattato nella maniera più disruptive dalla manifattura additiva, con applicazioni che spaziano dalla stampa di modelli anatomici per il planning prechirurgico a dispositivi medici altamente customizzati destinati ad essere impiegati sul paziente, e alla stampa di materiale biologico (bioprinting).

Le potenzialità di diagnosi e di trattamento che questa tecnologia introduce sono altamente innovative. Tuttavia, non solo – come già approfondito in un precedente articolo – il nuovo Regolamento sui dispositivi medici non disciplina in maniera specifica i device medicali stampati in 3D, ma l’output del processo di manifattura additiva non in tutti i casi può essere fatto rientrare nella categoria del dispositivo medico così come definito dall’articolo 2 del Reg. UE 745/2017.

I casi in questione: utilizzo diagnostico

Nel primo caso – quello relativo ai modelli anatomici per il planning preoperatorio – si tratta della riproduzione di prototipi tridimensionali di lesioni corporee, ricavati a partire dalla elaborazione di immagini ottenute da tomografie computerizzate (Tac) o risonanze magnetiche. Lo scopo è quello di permettere ai chirurghi una accurata analisi prechirurgica step by step, in alcuni casi essenziale per la corretta riuscita dell’intervento in sala operatoria.

Le repliche anatomiche sono inoltre utili a scopo didattico per la formazione degli specializzandi poiché rappresentano al massimo della verosimiglianza i distretti anatomici. Verosimiglianza che è altresì rilevante ai fini di un miglioramento della comunicazione medico-paziente, e funzionale a una più corretta acquisizione del consenso informato. Il paziente che osserva e maneggia in prima persona il modellino è in grado di rendersi conto dell’entità della lesione subita, e dunque della sua gravità, e formula una scelta terapeutica realmente informata e consapevole.

Mentre nel caso in cui le repliche vengono impiegate per la pianificazione prechirurgica l’utilizzo è considerato diagnostico e dunque esse rientrano nella normativa sui dispositivi medici. Se i modelli vengono impiegati solo per la formazione dei chirurghi o nell’ambito del colloquio medico-paziente, pur rappresentando tool di supporto alla attività clinica, non devono essere qualificati come medical devices, non essendo impiegati per le specifiche destinazioni d’uso previste dall’articolo 2 del Regolamento.

Il parere della FDA

Nel 2017 la FDA negli USA ha presentato il suo parere sui modelli anatomici stampati in 3D durante un incontro congiunto con il gruppo di interesse speciale per la stampa 3D della Società di radiologia del Nord America. L’opinione della Fda è di regolare il software utilizzato per stampare i modelli, piuttosto che le stampanti stesse (che nell’Ue sono disciplinate dalla Direttiva macchine 2006/42/CE) o i modelli stampati. Il software sarebbe considerato dalla Fda un dispositivo medico di classe II, regolato dal codice prodotto Llz, per l’archiviazione di immagini e sistemi di comunicazione.

E le disposizioni in Europa

In Europa, ai sensi del Regolamento UE 745/2017, il software destinato a fornire informazioni utilizzate per prendere decisioni a fini diagnostici o terapeutici rientra nella classe IIa, a meno che tali decisioni non comportino un rischio grave per la salute del paziente. O il decesso o un deterioramento irreversibile delle condizioni di salute di una persona, nel qual caso rientra nella classe III. Oppure un grave deterioramento delle condizioni di salute di una persona o un intervento chirurgico. In questo caso rientra nella classe IIb.

Secondo caso: l’impiego sul paziente

Al contrario delle tipologie di utilizzo precedentemente indicate, l’impiego diretto sul paziente di dispositivi 3d printed come impianti dentali o protesi altamente adattabili alle esigenze anatomiche dei singoli pazienti, con finalità di trattamento o attenuazione di malattie, e attenuazione o compensazione di una lesione o di una disabilità, qualifica tali device come dispositivi medici ai sensi della relativa norma.

L’interesse maggiore, seppur ancora a livello pionieristico, che suscita l’utilizzo della manifattura additiva in ambito biomedicale riguarda la stampa di tessuti a partire da cellule del paziente e il loro inserimento in strutture di supporto (scaffold), che ne orientano la proliferazione. Tessuti tridimensionali realizzati stampando bioink, ossia materiale composto da cellule umane, vengono oggi utilizzati per la sperimentazione di farmaci o per impianti nei casi di ustioni.
Così come nel caso, a monte, del 3D printing, il legislatore non è ancora intervenuto a disciplinare in maniera specifica nemmeno il settore del bioprinting. Pertanto la primaria esigenza è rappresentata dal comprendere quale sia la regolamentazione applicabile alla luce del quadro normativo corrente.

La legislazione sul bioprinting: gli USA

Allo stato attuale negli Usa i prodotti derivati da cellule staminali vengono disciplinati come le terapie cellulari somatiche. Ai sensi del Public Health Service Act, sezione 351, rientrano nella definizione di “biologics”, vale a dire medicinali fabbricati a partire da un processo biologico.

I prodotti biostampati in quanto terapie cellulari sono, inoltre, soggetti alle linee guida della Fda e, mentre ove utilizzati nell’ambito della ricerca scientifica o a fine di training e formazione, non richiedono alcuna approvazione durante la fase di test in vitro, se vengono impiegati direttamente sugli esseri umani il loro utilizzo dovrà essere sottoposto al controllo e alla autorizzazione da parte della Fda.

…e l’UE

All’interno del framework regolatorio dell’Unione europea, nel caso in cui un prodotto contenga cellule o tessuti vitali, l’azione farmacologica, immunologica o metabolica viene considerata la principale modalità di azione. Su tale base, il gruppo di lavoro denominato New and emerging technologies operante in seno alla Commissione europea, ha associato i prodotti biostampati a prodotti medicinali per terapia avanzata ai sensi del Reg. (CE) 1394/2007. Come tali, dunque, i medesimi non vengono considerati dispositivi medici né dunque fatti rientrare nella disciplina del Reg. UE 745/2017.

Il biodiritto

Non va tralasciato che il bioprinting è una tecnologia disruptive nata all’intersezione tra vari campi della scienza, con coinvolgimenti in termini di biodiritto, che, seppur con le dovute distinzioni, richiamano il dibattito sulle cellule staminali e sulla clonazione. Tanto più se si riflette sulla circostanza che l’apporto rivoluzionario che ci si attende da una simile tecnologia è prevalentemente legato alla possibilità che essa offre di riparare o sostituire organi difettosi o realizzarne interamente di nuovi che svolgano le stesse funzioni di quelli originali affetti da patologie, controbilanciando la scarsità di organi provenienti da donatore e scongiurando il rischio di rigetto.

L’influenza dei dibattiti filosofici e religiosi sulla legislazione

È dunque logicamente prevedibile che interverrà una regolamentazione a disciplinare la stampa in 3D di tessuti e organi per quanto concerne le sue possibilità e modalità di impiego nel campo della ricerca e dei trapianti. Regolamentazione che difficilmente potrà non risentire dei nuovi dibattiti religiosi, filosofici e bioetici che verranno innescati con riferimento alla generazione artificiale di parti del corpo, anche nella prospettiva, suggestiva e discussa, del potenziamento umano, e alla luce dei pericoli connessi rappresentati dal bioterrorismo o dal mercato nero. Il tutto senza tralasciare gli aspetti assicurativi e quelli economici legati ai costi di questo tipo di tecnologia, con le connesse problematiche di politica sanitaria e accesso alle cure.