È a tutti noto che la direttiva Dispositivi medici non conteneva nessuna disciplina specifica in materia di pubblicità dei dispositivi; pur in carenza di specifica previsione comunitaria l’Italia ha comunque inserito nel D.Lgs. 46/97 una specifica disciplina contenuta nell’art. 21, (titolato appunto “Pubblicità”) con la quale è stato introdotto un generale divieto di pubblicità dei dm, con eccezione di alcune categorie previa autorizzazione. Anche il quadro normativo sopra descritto è destinato – come altri – ad essere fortemente innovato dal futuro Mdr.
Prendendo spunto dal recente articolo “Advertising medical devices in the Eu – Do the Mdr and Ivdr represent a change in Eu law?” pubblicato sulla rivista internazionale Medical device journal regulation vediamo che cosa cambierà da maggio 2020. Le novità sostanziali scaturiscono dall’introduzione nel Mdr dell’art. 7. Tale norma nel testo inglese è titolata “claims”, tradotto nella versione italiana con “dichiarazioni”. Seppure la scelta linguistica possa apparite poco efficace, in realtà la norma mira proprio a disciplinare che cosa possa essere dichiarato (per iscritto o verbalmente) in relazione ai dispositivi.
Una corretta applicazione della nuova disciplina sarà poi più complessa di quanto appaia ad una prima lettura.
Più esattamente la norma così stabilisce:
Nell’etichettatura, nelle istruzioni per l’uso, nella messa a disposizione, nella messa in servizio e nella pubblicità dei dispositivi è proibito il ricorso a testi, denominazioni, marchi, immagini e segni figurativi o di altro tipo che potrebbero indurre l’utilizzatore o il paziente in errore per quanto riguarda la destinazione d’uso, la sicurezza e le prestazioni del dispositivo:
L’incipit dell’art. 7 delinea l’ambito di applicazione della norma stessa. Più esattamente:
"Nell’etichettatura, nelle istruzioni per l’uso, nella messa a disposizione, nella messa in servizio e nella pubblicità dei dispositivi è proibito [...]"
Dalla semplice lettura della disposizione appare pacifico che le prescrizioni dell’art. 7 si applicano non solo ai documenti scritti (etichettatura e istruzioni per l’uso – All. I punto 23), ma anche alla fasi di messa a disposizione e messa in servizio (art. 2 punti 27 e 29), vale a dire a quelle situazioni nelle quali l’operatore commerciale (o più facilmente il suo rappresentante commerciale) entra in contatto, anche verbale, con l’utilizzatore.
Inoltre, la norma trova applicazione anche a tutte le fattispecie che possono rientrare nella nozione di “pubblicità” . Sul punto si precisa che l’art. 2, comma 1, lett. a) del D.Lgs. 145/2007 sulla pubblicità ingannevole definisce che per “pubblicità” deve intendersi “qualsiasi forma di messaggio che è diffuso, in qualsiasi modo, nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale allo scopo di promuovere il trasferimento di beni mobili o immobili, la prestazione di opere o di servizi oppure la costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi su di essi”. Vale a dire che rientra in questa nozione qualsiasi “messaggio” che abbia come scopo quello di promuovere la vendita di un bene o un servizio: ne deriva che la norma ha un ambito di applicazione decisamente molto ampio.
È proibito il ricorso a testi, denominazioni, marchi, immagini e segni figurativi o di altro tipo che potrebbero indurre l’utilizzatore o il paziente in errore per quanto riguarda la destinazione d’uso, la sicurezza e le prestazioni del dispositivo. L’ampiezza del divieto riguarda poi il possibile utilizzo di (praticamente) tutti i mezzi di comunicazione diretta (testi) o indiretta (denominazioni, marchi, immagini, segni figurativi ecc.), che siano idonei ad “indurre in errore” il soggetto a cui ci si sta rivolgendo. Circa la capacità di “indurre in errore” si noti che il Mdr utilizza un istituto giuridico (la rilevanza dell’induzione in errore) tipico della disciplina della pubblicità ingannevole (art. 2 comma 1 lett. b) D.Lgs 145/2007 – pubblicità B2B) e delle pratiche commerciali sleali di cui al Codice del Consumo (art. 21 comma 1 D.Lgs 206/2005). Di conseguenza, i precedenti specifici potranno essere identificati tenendo conto delle decisioni già emesse dall’Agcm in materia di Dm.
Per quanto riguarda, invece, gli ambiti relativamente ai quali il soggetto può essere indotto in errore, la norma richiama la “destinazione d’uso” nonché la “sicurezza e la prestazione” del Dm stesso.
Nello specifico:
La valutazione clinica, poi, viene definita all’art 2 punto 4 Mdr come “un processo sistematico e programmato atto a produrre, raccogliere, analizzare e valutare in maniera continuativa i dati clinici relativi a un dispositivo per verificarne la sicurezza e le prestazioni, benefici clinici compresi, quando è utilizzato come previsto dal fabbricante”.
Di conseguenza, dal momento che la destinazione d’uso del dispositivo medico viene determinata (anche) sulla base della valutazione clinica e la valutazione clinica si basa su dati clinici, ne discende che qualunque dichiarazione del fabbricante, scritta o orale, in merito al Dm dovrà essere basata su dati clinici in suo possesso.
In sostanza non si può in alcun modo vantare caratteristiche benefiche del Dm che non siano ricomprese nella destinazione d’uso (e quindi “provate” tramite la valutazione clinica ed i relativi dati).
L’art. 7 declina poi alcune casistiche specifiche stabilendo che l’induzione in errore può crearsi
Nelle lettere a) e b) sembra che il Mdr specifichi profili che in qualche modo sono già ricompresi nella destinazione d’uso “omettendo di informare l’utilizzatore o il paziente circa un rischio potenziale associato all’uso del dispositivo secondo la sua destinazione d’uso”.
La lettera c), invece, introduce (per la prima volta) un obbligo positivo di comunicazione. In altre parole è vietato omettere di dare indicazioni circa i rischi legati all’uso del dispositivo, rischi sempre connessi alla valutazione clinica e quindi derivanti dai dati in possesso del fabbricante “proponendo usi del dispositivo diversi da quelli dichiarati parte della destinazione d’uso per cui è stata svolta la valutazione della conformità”.
In questo punto, l’art. 7 (d) Mdr introduce espressamente un divieto di off-label claims, non previsto nel Mdd. Infatti, il fabbricante non può proporre usi diversi da quelli specificati nella destinazione d’uso per cui è stata svolta la dichiarazione di conformità. In sostanza in pubblicità non si può indicare nulla che non sia ricompreso nella destinazione d’uso e nelle indicazioni del fabbricante.
Vi è poi un altro aspetto che merita di essere evidenziato. Il Mdd all’art. 4(3) afferma che:
“Gli Stati membri non impediscono — in particolare in occasione di fiere, esposizioni e dimostrazioni — che vengano presentati dispositivi non conformi alla presente direttiva a condizione che sia apposta un’indicazione chiaramente visibile che indichi che gli stessi non possono essere immessi in commercio né messi in servizio prima della loro messa in conformità”.
La ratio della norma risiedeva nel fatto che i prodotti presentati nel corso delle fiere non vengono “pubblicizzati” ma solo presentati a fini dimostrativi. Tale norma non è stata riproposta nel Mdr. A parere di chi scrive, però, la carenza di disciplina specifica non impedisce tout court la presentazione alle fiere: sotto un profilo strettamente giuridico, infatti, appare sostenibile che il prodotto “non ancora marcato CE” non sia ancora un “dispositivo medico”. Certamente un chiarimento della Commissione non guasterebbe.
Chi scrive ritiene poi che l’art. 7 acquisti piena efficacia dal 26 maggio 2020, essendo il periodo transitorio previsto solo per i certificati (sul punto si veda per un nostro articolo in merito).